Dopo il polpettone natalizio ecco un altro articolo “fuori tema”.
Contemplative studies: cosa sono
Ho cominciato un nuovo percorso di studi, un Master in Contemplative Studies presso la facoltà di Psicologia a Padova. Si tratta di un ambito che potremmo definire di frontiera, con un approccio trans-disciplinare, che unisce ricerche provenienti da diversi campi del sapere tra cui neuroscienze, filosofia, tradizioni religiose, antropologia e sociologia, volto allo studio delle arti contemplative, della mindfulness e di diverse forme di meditazione. Non si tratta solo di teorie perché siamo invitati a fare pratica attraverso un allenamento quotidiano: un percorso appassionante che senz’altro emergerà in futuri confronti.
Tutto ciò si interseca con un approfondimento sul Buddhismo, in particolare tibetano, cominciato tanto tempo fa a pezzi e bocconi e poi proseguito, in maniera più sistematica, nell’ultimo anno. Si tratta di una conoscenza millenaria che ancora oggi esprime grande vitalità, un pensiero ricchissimo, fruttuoso e decisamente interessante specie per quella piccola fetta di umanità, definita da Joseph Henrich WEIRD (Western Educated Industrialized Rich and Democratic), di cui faccio parte e che, in questa fase storica, necessita più che mai di nuove prospettive.
Perché vi parlo di questo? Per esplicitare il contesto in cui fiorisce una mia riflessione spontanea, intima (forse troppo, non so) che vorrei condividere con voi.
Ciò che mi affascina del Buddhismo è la sua visione, o almeno quella che ritengo essere tale al mio livello attuale di comprensione, per cui si ha un “Uno” armonioso e interrelato (un insieme in cui ogni cosa è in relazione con ogni altra cosa secondo reciproci rapporti olonimici) e un mondo invece duale (in cui ci sono scontri, guerre, in cui tutto è impermanente, imperfetto, mutevole, stocastico), che coesistono senza la necessità di un Aldilà o di un Dio.
Non c’è nessun Aldilà, l’al di là è già al di qua, l’al di qua è già al di là: dipende unicamente dal punto di vista da cui noi osserviamo le cose.
Quando l’Io esagera un po’
Un altro aspetto di questa filosofia, religione, forma di pensiero, terapia psicologia, scienza che chiamiamo Buddhismo, riguarda l’analisi rigorosa, puntuale e dettagliata della sofferenza, delle sue forme e dei modi per curarla. In particolare le afflizioni (dukkha) che affondano le radici nell’Ego, o meglio nell’attaccamento all’Ego.
È metterci costantemente al centro del cosmo la nostra fonte di afflizione non perché non dovremmo avere qualità nostre, desideri, progetti ma perché abbiamo la tendenza a considerare questi elementi come premesse fondanti dell’esistenza quando, a ben vedere, le cose non stanno così e il mondo potrebbe tirare avanti tranquillamente senza le nostre opinioni.
Il problema dunque non è tanto l’Io, quanto il suo essere costantemente in primo piano rispetto al mondo, quando a ben guardare, come dice Ghilardi, buona parte delle cose belle e importanti della vita accadono fuori scena, indipendentemente dalla nostra volontà.
Facciamo un’analogia con il denaro. Anche in questo caso potremmo affermare che non è il denaro il problema ma l’attaccamento a questo. Ben venga una vita con qualche agio, confortevole e al riparo dalla miseria. Il problema è quando tutto ciò che facciamo ha un corrispettivo sul nostro conto corrente. Ci sono persone per cui accumulare diviene una fissazione, la ricchezza stabilisce l’importanza di un’esistenza umana rispetto a un’altra, tutto ha un prezzo.
Occorre solo riportare in ordine le cose, dare il giusto peso all’Ego.
Come fare? Come cambiare angolazione?
Ricordarci di essere mortali può essere un buon modo per cominciare. Non affezionandoci troppo alla nostra pelle più o meno liscia, ai nostri capelli e nemmeno alla nostra intelligenza più o meno vivida. Pensiamo all’Universo, alle infinite forme di vita che lo popolano, al Vuoto.
Non si tratta di una teoria speculativa ma solo di prendere atto del fatto che nella visone comune l’ego occupa più spazio del sole. Non si tratta di credere in qualcosa di esoterico o di far proprio uno stile di vita ma solo si accettare: di vedere cosa siamo, chi siamo, cominciando a respirare liberi dall’Io.
Spesso viene detto che la nostra libertà finisce dove comincia quella dell’altro. A me tuttavia risuona meglio dire che siamo liberi nella misura in cui lasciamo liberi gli altri. Io sono tanto libero quanto permetto all’altro di esserlo, il che implica una de-centralizzazione delle mie aspettative, di miei bisogni e delle mie convinzioni. Si tratta di un approccio non muscolare all’identità che si manifesta non per imporsi sulla vita ma per fare esperienza di questa.
Così essendo, quanto meno sono “Io”, tanto più può esserci felicità per me e per gli altri.
Pacificarci con noi stessi, riconoscere i nostri pregiudizi, in nostri schemi di funzionamento e aprirci anche a ciò che non conosciamo ci dispone a incontrare il nuovo così come accogliamo un ospite in casa. Dovremo darci delle regole e accordarci su data e luogo, potremmo scoprire di avere abitudini diverse ma nulla di tutto questo genererebbe sofferenza o conflitti.
Io potrei pranzare a mezzogiorno e l’altro nel primo pomeriggio. Non c’è problema. Potremmo mangiare insieme alle 13 oppure separatamente e incontrarci dopo. Potremmo addirittura scoprire, nell’obbligarci a mangiare all’orario dell’altro, l’opportunità per sperimentare qualcosa di diverso, che è possibile cibarsi a orari insoliti e forse fare nostra questa nuova abitudine.
Liberarsi per librarsi
In questo modo la libertà non limita e non vuole essere limitata. Non si ferma sul confine casa mia/casa tua ma invita alla possibilità di farci ospiti delle nostre case, con le nostre differenze, in dialogo. Saremo così liberi di essere ospiti e di ospitare, di muoverci, di accogliere: liberi di sentirci ospiti a casa nostra, temporanei, passeggeri con leggerezza, curiosità, benevolenza, di volare oltre i muri che abbiamo eretto.