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Senza sapere

Senza sapere
#Idee

Non sono certo io il primo a restare affascinato dal Buddhismo, a cercare, da occidentale, bianco, alfabetizzato in una cultura pregna di pensiero critico, di filosofia greca e cristianesimo, di carpirne l’essenza, di coglierne il messaggio per farlo vivere in una pratica quotidiana.

Non sono certo il primo a tentare goffamente di adattare questa religione alla vita moderna di un libero professionista tentando, non senza dubbi e difficoltà, di conciliare principi quali impermanenza, non Sé, interdipendenza, compassione a un mondo lavorativo fatto di ego ipertrofici, competizione, performance, velocità e profitto personale.

Non sono certo io il primo a svegliarsi nel cuore della notte sopraffatto da una vertigine di paura, inutilità, inadeguatezza e smarrimento frutto di un’esistenza votata al fare e sprofondata in una giornata in cui problemi lavorativi e privati indietreggiano e fanno da sfondo a domande più ampie sul senso di essere qui e ora, in questa forma così passeggera, così incredibilmente capace di amore e di solitudine, di affetti e di addii. 

E basta un colpo d’aria, o un nodulo trascurato, un boccone andato di traverso, un neo, un’allergia, una distrazione in auto, un bagno troppo freddo o cuore debole per renderci incommensurabilmente consapevoli dell’essere in transito. Basta la morte di un amico gioioso e raffinato, capace di bellezza e di sorrisi che non vedremo più, per riesumare antichi dolori e l’ossessione dell’io che si confronta con il suo limite.

Ed eccomi quindi qui, a tentare di scrivere non so cosa, come una versione illetterata di Guccini e senza vino o voglia di bestemmiare, di cercare parole, parole che profumino di autenticità, che diano risposte a domande immense, che riscaldino i cuori e portino freschezza nel pellegrinaggio asfissiante di menti obnubilate e stanche, ridotte a poltiglia dai troppi impegni, dagli studi e dalle notifiche, da maledetti lavori di ristrutturazione, da notizie di guerra e da eppure si deve andare avanti. 

O forse sto scrivendo cercando di sentirmi migliore, immaginando che qualcuno leggendo queste righe penserà che sono una persona profonda e sensibile, nella ricerca di misera autocommiserazione o forse per condividere un po’ di silenzio e un abbraccio, un grazie, un auto-invito a lasciare andare che diventa preghiera collettiva, richiesta di aiuto e di tenerezza.

Da tempo non scrivevo così, di getto e senza fare ricerche, senza sapere cosa stessi per scrivere.

È bello. È proprio bello lasciare scorrere le dita sulla tastiera, vedere cosa ne salta fuori, stupirsi di quello che emerge spontaneamente. Le quattro di notte è un buon orario per fare questo. Fatelo. Facciamolo.

Non lasciamo sfuggire questa occasione, questo respiro così unico e speciale, questo contatto con le foglie e le alghe, con l’umidità e il calore, con la madre. Corpo di terra, vene come ruscelli, roccia nelle ossa, denti di stalattiti, brezza nei polmoni, piccoli terremoti scuotono il petto, nello stomaco un sole che brucia. E al centro un cuore. C’è sempre il cuore al centro.

Dicevi di imparare a guardare, di fidarci dei nostri occhi. L’ho letto sul giornale, non ti conoscevo abbastanza per sapere cosa dicevi, ma cerco di accogliere il tuo invito ricordando il tuo volto.

In questo momento in cui i pensieri scricchiolano, compassione e meraviglia siano balsami capaci di oliare gli ingranaggi della mente. Possa ricordarmi che il nostro esserci è un siamo e che ogni nascita e ogni morte non sono che respiri senza inizio e senza fine. 

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