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Parole al vento

Parole al vento
#Idee

Il vento nei giorni scorsi ci ha ricordato il valore dell’interdipendenza, di quanto siamo intimamente interconnesse/i. Dal vento raccolgo pensieri, che al vento rimetto, per chi desidera ascoltare un urlo in cerca di musicisti che lo trasformino in canto.

La settimana scorsa la Val d’Aosta ha vissuto giorni di caldo, di afa e soprattutto di grigio. Una nebbia densa di pm10 ha coperto il cielo. Le cause di quest’atmosfera monocromatica questa volta non era da addebitare ai Diesel Euro 1 o ai riscaldamenti domestici ma alla fuliggine degli incendi in Canada che, attraversando l’Oceano, è giunta fino a oscurare il sole in Europa.

Sempre in questi giorni è allarme PFAS nelle acque minerali. I PFAS, o sostanze perfluoroalchiliche, sono un gruppo di composti chimici artificiali noti per la loro persistenza (vengono definiti “forever chemicals”) nell’ambiente e negli organismi viventi. Accumulandosi nelle nostre cellule aumentano il rischio di cancro ai reni e ai testicoli, indeboliscono le difese immunitarie, possono interferire con il sistema endocrino causando problemi di fertilità, tiroide, sviluppo, gravidanza e parto. Inizialmente si pensava che la loro presenza nell’acqua che beviamo ogni giorno fosse da rintracciarsi nelle fasi imbottigliamento ma le ricerche successive hanno dimostrato che il problema è di tipo sistemico: questi composti si trovano ormai nel suolo e nelle falde acquifere. 

The butterfly effect

Che un batter d’ali di una farfalla in Brasile possa provocare un tornado in Texas come Edward Norton Lorenz proponeva nel 1972 è una realtà empirica. Viviamo sullo stesso pianeta. Possiamo andare dall’altro capo del mondo ma saremo sempre interconnessi.

In un momento storico in cui ci rendiamo tristemente conto di vivere nella distopia di un mondo sotto scacco, in cui le regole del diritto internazionale non vengono nemmeno messe in discussione ma semplicemente ignorate sotto le bombe (fisiche e mediatiche) guidate da Intelligenze Artificiali, in cui sembra che homo sapiens abbia fatto il suo tempo, ho deciso di parlare di un tema a me caro, quello dell’interdipendenza che ha come compagni di viaggio quello di vacuità e di impermanenza.

Grazie a diversi incontri, agli insegnanti e ai compagni del Master, a letture e seminari queste ecologie cognitive negli ultimi mesi si sono arricchite di nuovi spunti.

Teatri, monasteri, università: tutto mi parla di interdipendenza

Alcuni di questi sono arrivati nel corso di un incontro di tre giorni presso il Monastero Sanboji a Berceto, grazie a Enrico Cerni, amico e collega del Master in Contemplative Studies a Padova, si sono incontrati ricercatori di discipline solo apparentemente distanti. Qui il Complexity Institute ha dialogato con le tradizioni buddiste, in particolare tibetana e Zen.

Abbiamo seguito corsi e lavorato in gruppo alla ricerca di punti di contatto, e di differenza, alla ricerca di visioni epistemologiche che accolgano il paradosso, non per annientarlo o negarlo ma per imparare a conviverci senza voler giungere necessariamente a una sintesi. L’intento alla base è quello di superando logiche riduzioniste e reificanti, accettare il fluire degli eventi, di assaporare la contraddizione come nettare nutriente e non come virus da debellare. Per operare questa trasmutazione del pensiero occorre uno spazio in cui le contraddizioni possano co-abitare.

Nishida Kitarō parla di una “logica del luogo” (in giapponese “basho no ronri”) che superi la distinzione tra soggetto e oggetto, proponendo una visione in cui entrambi coesistono in un “luogo” che li contiene e li rende interdipendenti. In questa idea che gli opposti si definiscono a vicenda.

L’idea di interdipendenza (o di sorgere dipendente) è centrale anche nella pratica e nello studio del buddismo. Ha a che vedere con la natura samsarica e la vacuità (Śūnyatā, vacuità non nel senso di vuoto ma come sorgente potenzialmente infinita) per cui ogni cosa esiste ma solo in relazione con l’alterità. Nulla è dato in sé, niente esiste come monade isolata. Ogni elemento (ne scrivevo già oltre 20 anni fa nella mia tesi di laurea) è in rapporto olonomico con ogni altro elemento che lo contiene, in quanto lo implica, in un ordine più vasto in cui l’elemento stesso è contenuto. 

Scriveva nel 1978 Alan Watts:

La sensazione di sostanza emerge solo quando siamo messi di fronte a modelli così confusi o strettamente legati tra loro da  non riuscire a decifrarli. A occhio nudo una galassia lontana sembra una stella solida, e un pezzo d’acciaio una massa di materia continua e impenetrabile. Ma quando cambiamo scala di ingrandimento, la galassia assume la chiara struttura di una nebulosa a spirale e il pezzo di acciaio diventa un sistema di impulsi elettrici che volteggiano in spazi relativamente ampi. L’idea di sostanza non esprime altro che l’esperienza limite in cui i nostri sensi o i nostri strumenti non sono abbastanza sottili da decifrare il modello.”

Un ulteriore impulso a scrivere questo post è giunto da Michelangelo Pistoletto che si trovava a Reggio Emilia per parlare di pace insieme a Federico Ruozzi e a Francesco Monico nella Sala degli Specchi del Teatro Valli. Il luogo non era scelto a caso (perché la forma è sostanza), e perché  richiamava la tensione tra verità e inganno, identità e illusione dei quadri specchianti (altra opera del Maestro) in cui la dimensione della relazione e non la sintesi, la tensione e non l’assenza di conflitto, diventano moto e motivo di ricerca.

L’idea che “nello specchio vediamo un’immagine che non c’è stata prima e non ci sarà mai più” risuona perfettamente con l’idea di impermanenza (anicca) della tradizione Mahayana, in cui tutto passa ma lascia tracce, in un gioco di entanglement quantistico le più recenti teorie di fisica teorica per cui la somma di Spazio-Tempo e Massa-Energia, è un insieme a somma Zero. Vacuità per l’appunto. 

Il Terzo Paradiso: dalla dinamica alla trinamica

In merito al Terzo Paradiso, Pistoletto ha invitato a superare la dinamica per lasciare spazio alla Trinamica.

Michelangelo Pistoletto. – Terzo Paradiso

La Trinamica è la dinamica del numero Tre. È la combinazione di due unità che dà vita a una terza unità distinta e inedita. Nella Trinamica il Tre rappresenta sempre una nascita, che avviene per combinazione fortuita, o voluta, fra due soggetti. […] La Trinamica è la scienza delle relazioni e degli equilibri. Ma soprattutto, è il principio della creazione. In questa visione la verità si dà come relazione, “si fa” direbbe Vito Mancuso. U processo irriducibile e senza fine che come un Koan, domanda enigmatica usata come pratica di meditazione nello Zen, non possono essere compreso in termini convenzionali, che non chiude in una risposta ma che apre a campi di esplorazione, a nuove domande.

Se è vero, come afferma Parker J. Palmer che ogni modo di conoscere diventa un modo di vivere e che quindi ogni epistemologia diventa un’etica allora questa epistemologia può essere alla base della pace preventiva, di cui ce ne dimentichiamo valore e la fragilità.

Perché perdere tempo con l’interdipendenza?

Il pensiero crea, le parole danno forma al mondo, inteso come rappresentazione simbolica, come orizzonte di significazione. Per questo l’idea dell’anello centrale nell’opera di Pistoletto che nel Triplo Cerchio, segno/formula della Trinamica, integra la vita nell’infinito nell’interazione e il neologismo “inter-essere” inventato da Thích Nhat Hanh per tradurre in un verbo il concetto stesso di esistenza interdipendente, risuonano nella mia mente con il concetto di iper-ciclo che il Prof. Zollo ha spiegato, parlando di complessità, come di quel sistema che sostituisce il diktat dell’Aut-aut (questo o quello) per aprirsi alla coesistenza feconda e generativa di condizioni contraddittorie (questo e quello), così come al concetto di Struttura-che-connette di Gregory Bateson.

Tutti questi autori e maestri ci invitano ad accogliere il nostro essere-nel-mondo iscrivendo le nostre azioni, i nostri pensieri e i nostri corpi in un sistema ben più ampio di quel Sé narrativo che siamo continuamente stimolati a foraggiare in una battaglia senza fine tra noi e l’altro. 

A ben vedere le cose potrebbero infatti essere diverse da come le vediamo e potremmo scoprire che questo io che con tanta fatica creiamo, scolpiamo, vendiamo e veneriamo forse non è che un artefatto che ci porta lontano dalla nostra più intima natura, che ci rende distanti dall’esistenza e che, nelle sue forme estreme, disumanizza e ci rende complici di distorsioni abominevoli.

Se portiamo l’attenzione su ciò che ci accomuna e non su ciò che ci differenzia le cose cambiano naturalmente e il senso di interdipendenza emerge nel nostro quotidiano.

Guardandoci attorno, ora in questo momento, comprendiamo che senza la collaborazione di milioni di persone non avremmo gli occhiali che indossiamo, lo smartphone, i libri, il bicchiere sulla scrivani, l’edificio in cui stiamo lavorando, i diritti, il wi-fi, le patatine fritte, la pace.

La pace appunto

La pace non è una condizione come un‘altra. La pace è la base imprescindibile per la nostra esistenza e il suo fondamento può trovarsi proprio nel riconoscere l’intima interdipendenza, la vacuità, l’impermanenza, nel riconoscere e abbracciare la nostra umanità condivisa. È un principio cardine, che per qualche ragione tendiamo a dimenticare.

Questo senso di comune umanità si può e si deve allenare. I metodi possono essere molti. Nel mondo Occidentale vi sono oggi pratiche secolarizzate, quali la CCT (Compassion Cultivating Training) che possono essere adottate in organizzazioni, scuole e imprese.

Si può partire dallo scegliere con cura le parole che usiamo (Elena Codeluppi docet) o dal discernere in modo lucido il nostro intento, quanto mai importante nell’era dell’AI (mi viene la pelle d’oca a pensare di cosa si stia alimentando e quali possano essere gli esiti di una comunicazione ricorsiva con una macchina che ci dà sempre ragione, che fa sentire interessanti e che di fatto asseconda ogni nostra esigenza. Come non preferire la sua compagnia a quella del partner o dell’amico che ti fa notare un difetto?).

Possiamo ripartire dal pensare in modo artistico, (Papa Francesco esortava gli artisti chiedendo loro “Insegnateci a pensare!”) o dedicarci alla meditazione. Il potere trasformativo del passaggio da una visione egocentrica a una ecocentrica può esprimersi a ogni livello .

Cogliere l’interdipendenza significa anche re-immaginare il futuro, in un modo un po’ più equilibrato. Alla domanda su come immaginiamo il mondo tra qualche anno molti di noi risponderebbero in modo più o meno catastrofista, prevedendo, a ragione o torto, un pianeta sempre più sofferente, sovrappopolato e incline a dittature. Se invece ci viene chiesto che progetti abbiamo per noi pensiamo a una nuova casa, un lavoro migliore, a sposarci e avere famiglia. Insomma c’è un bias evidente nella nostra percezione come se la nostra vita fosse avulsa dal contesto, come fossimo extraterrestri.

Riscrivere il presente

Per riscrivere il futuro (tema molto contemporaneo e in grave crisi da quando non c’è più il futuro di una volta) occorre un presente diverso, che si riconosca nel tracciato del tempo superando un finalismo storico ma non ignorando la determinazione di cause, processi e condizioni. Scriveva Pierangelo Sequeri su Avvenire: “I bambini uccisi da Erode possono forse essere archiviati e scaricati nel buco del lavandino del tempo passato? La storia è in debito con essi, come con quelli che ammazza ora.”

Mi e vi chiedo: che impatto ha sulle nostre coscienze questa violenza collettiva? Che sensazione ci lascia assistere a guerre e non fare nulla? Che effetti ha? Uno Stato che si comporta in modo schizofrenogeno può essere paragonato a un genitore assente o disfunzionale? Dov’è finito il senso di responsabilità? 

Leggevo qualche giorno fa che ora esiste una tecnologia che permette di vedere attraverso i muri. Ovviamente la notizia veniva data con toni enfatici che ne sottolineavano l’importanza in casi di terremoti per recuperare le vittime. Non so perché ma da subito mi ha pervaso il sentore che potrebbe essere utilizzata principalmente a scopi bellici. Negli ultimi anni abbiamo visto saltare per aria telefonini, droni che ammazzano persone civili mentre dormono nei loro letti, GPS e termocamere in grado di percepire la presenza di esseri viventi anche da lunghe distanze, i CTO e i Product Officer di Palantir, Meta e OpenAI insigniti del grado di Ufficiale Lt. Col. O-5 (appena sotto il colonnello) dall’U.S. Army Reserve. Ditemi se le mie perplessità sono infondate.

Occorra ripartire dai bisogni e farla finita con queste logiche neo positiviste e scientiste, che divengono dottrine peggiori di tanti dogmi religiosi, per cui solo perché c’è qualcosa di nuovo questo debba essere per forza un bene. Non abbiamo bisogno di nuove tecnologie esterne ma di riappropriarci di uno sguardo che tenga conto dell’interconnessione.

In questo quadro l’urgenza di una riflessione sul nostro modo di percepirci e di conoscere diviene fondante. La crisi che ci troviamo a vivere richiede l’elaborazione di nuovi paradigmi e un approccio in cui l’etica non sia confinata a un “poi si vedrà”, recuperando una logica prometeica in un cui il tempo kairologico sostituisca una visione cronologica, disumana per definizione, in cui una rinnovata consapevolezza sia intrinseca a ogni ricerca.

So che può sembrare utopico. Ogni volta che parlo di portare un approccio non impositivo, olistico e compassionevole nelle imprese, che ricordo di far parte di un network di professionisti, Zirrafa, che s’impegna per lasciare un’impronta positiva nel mondo attraverso la gentilezza, quando nei corsi che tengo sull’Intelligenza Artificiale invito a interrogarci sugli effetti a (nemmeno troppo) lungo termine o quando propongo, nei miei corsi di Digital Detox, la meditazione come soft skill delle soft skills (direbbe Scianna), mi guardano come se venissi da un altro pianeta, come un ingenuo o al più come una brava persona priva di aderenza con la realtà. 

Lo scopo è troppo importante per essere abbandonato a causa di qualche critica, la posta in gioco è altissima e quindi mi sta bene anche essere considerato un po’ strambo perché all’indifferenza, all’immobilismo, alla condiscendenza preferisco di gran lunga qualche occhiata di commiserazione.

“Lasciamo le nostre convinzioni. Il fine giustifica i matti.”

Dice il mio amico e professore Enzo Moietta che il filosofo ha il compito di trasformare un grido in un canto, un canto concettuale che ci liberi dalla sudditanza del senso comune.

Bene, amiche e amici, è tempo di ascoltare e trasformare questo grido a partire dal riprendere la capacità di stare presso di sé senza aggrapparsene, sentire il passaggio senza rimuoverlo e senza reificarlo (parole di Marcello Ghilardi, altro insegnante meraviglioso).

Tornare alla relazione, alla connessione con sé e con gli altri.

Gonzalo Brito ci ricorda che al momento della morte non ci pentiamo di non aver lavorato abbastanza o di aver trascorso poco tempo sui social network ma di non aver coltivato amore e relazioni di amicizia, di non essere stati autentici e di esserci preoccupati eccessivamente del giudizio degli altri. Nel momento in cui riconosciamo ciò che è veramente importante, spontaneamente, ci porremo in una postura mentale più ampia di cura e di aiuto. Non confondiamo l’empatia con l’attitudine all’aiuto.

Non occorre soffrire per aiutare, non è necessario e nemmeno auspicabile. Comprendere la nostra umana natura, il nostro essere tal-qual-è, non nel senso di non importa quale ma di tale che comunque importa, implica riconoscerci reciprocamente, incontrare l’altro come un dono importante, nel suo significato etimologico, di “portare dentro”. 

Pensiamo a qualcuno che per noi è importante.  Perché lo è? Perché “riesce a portarsi dentro”, a toccare la sfera interiore, perché anche solo respirare insieme ci trasforma, perché quel che dice e che fa ci riguarda da vicino e perché lo fa da un punto di osservazione unico, speciale. Questa unicità merita attenzione, rispetto. Chiunque è importante per qualcuno. 

Chiunque merita gentilezza e compassione (che in tibetano significa “qualcosa vicino al cuore”). Nella nostra cultura la parola compassione, con i suoi attributi pietisti, essere fonte di fraintendimento. Se da vocabolo diventa pratica quotidiana la compassione diviene un’amica fidata. Questa pratica deve cominciare anzitutto verso noi stessi.

“In caso di emergenza mettersi prima la maschera dell’ossigeno e poi prestare aiuto agli altri.” Ci intimano quando saliamo in aereo. Non è egoismo, è sensatezza.

Riprogrammiamo le nostre abitudini

“Mindfulness, yoga, meditazione non sono baggianate New Age” dice la neuroscienziata Michela Matteoli, ma antropotecniche che, insieme allo studio e alla riflessione, possono riorientare il nostro vivere. Integrarle nella nostra esistenza significa superare i nostri limiti, quel corrotto surrogato di Ego che poniamo spesso al centro, concedersi di sbagliare, essere premurosi con sé e con gli altri, non avere fretta di saltare alle conclusioni, essere determinati nel proprio percorso di costruzione delle migliori condizioni di convivenza.

Abbracciare la complessità, invitare l’interdipendenza nelle nostre scelte, restare con domande in sospeso può essere faticoso ma ci permette di non rinunciare quanto ci è più prezioso: essere umani.

Amiche e amici, che queste tante, quasi sicuramente troppe, parole siano davvero parole al vento, un vento che torni a portare essenze profumate e non smog e radioattività.

Al vento le dono con i migliori auspici di pace. Buon vento.

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