Lo spunto per questo articolo parte dalla lettura del libro “Devi cambiare la tua vita” e da una lectio magistralis, tenutasi recentemente al Festival Filosofia di Modena, del filosofo tedesco Peter Sloterdijk.
Sarebbe pretenzioso riassumere in poche righe la ricchezza di un pensiero tanto articolato quanto ricco di riferimenti, connessioni e citazioni. Quello che mi interessa è condividere alcune riflessioni circa un nuovo paradigma, fondato sul superamento della dicotomia tradizionale tra credenti e non credenti, che pone, o forse ripropone, l’idea di vita come esercizio.
Per capire il contesto in cui inseriamo questa idea di “esercizio”, iniziamo con il riconoscere nella nostra natura umana un’incompletezza ontologica, una fragilità congenita. Già a livello organico, è facile riconoscere come nasciamo manchevoli, “senza qualità”, sottodeterminati. Siamo tra gli animali con la più lunga infanzia e adolescenza. Buona parte della gestazione avviene dopo la nostra nascita e forse occorrerebbero almeno 25 mesi di gravidanza per nascere in modo da essere quasi autonomi, in grado di camminare e cibarci.
Un’antilope, un cavallo o una tartaruga non possono permettersi il lusso di restare mesi e anni per imparare a deambulare, a riconoscere i pericoli o a scappare. Soprattutto nasciamo senza un talento determinato. Non siamo uccelli che spiccano il volo, né tartarughe pronte a gettarsi nel mare, nessuno sa alla nascita se diventeremo musicisti, tabaccai, traduttori dal mandarino o saltatori con l’asta.
Una vita sottodeterminata
Come Homo Sapiens, dobbiamo imparare tutto, nella perenne necessità di trovare un equilibrio per restare in posizione eretta su due gambe e con il peso di un testone in cima. Abbiamo sempre un potenziale eccedente, inespresso e di una costante tensione verso le varie specializzazioni. Quando si parla di sottodeterminazione ontologica dell’essere umano si intende proprio quell’irriducibile precarietà che ci obbliga a una continua cura di noi stessi, a divenire esseri autoterapeutici: l’uomo è condannato alla cura di sé stesso. Dopo i primi anni di vita infatti siamo noi a dover imparare ad accudirci, prenderci per mano, comprenderci meglio per cercare di rispondere a nuove esigenze, ad allenarci. Da qui l’analogia con l’atletismo.
Siamo per così dire altleti fuori forma, acrobati mutilati, funamboli nietzschiani, che a ogni passo devono stare attenti a non cadere in un abisso profondo e sempre presente, a sviluppare nuove abilità e che ci danno un buon motivo per guardare in alto. Siamo gettati nella vita, cercando un senso, dei sensi che orientino il nostro esserci, attraverso un esercizio costante che tuttavia non può essere solo proiettato a un cambiamento esterno e ancor meno impaziente di ottenere risultati duraturi in un continuo superamento di sé. È quindi necessario familiarizzare con noi stessi (una delle accezioni della parola meditazione si riferisce proprio a questo prendere confidenza con sé) e, in questa visione, la pratica ascetica diviene nuovo fondamento e precondizione per un’esistenza che si eleva, che nutre la trasformazione in una dimensione di misticismo informale.
Una vita nonostante
Non si tratta di volere essere perfetti ma di apprendere a “vivere nonostante” tutto, nonostante i limiti, le difficoltà, l’handicap di essere umani. E di non rinunciare alla verticalità.
Scrivevo l’altro giorno in un commento su Linkedin di come siamo l’unico essere vivente capace di autodistruggersi, di torturare, fare guerre, sottomettere altri animali alla nostra volontà, ucciderli massivamente non per necessità ma per piacere di farlo. Margherita Hack ci esortava non tanto a chiederci se gli animali abbiano o meno una coscienza ma a chiederci, in primis, se noi ce l’abbiamo. Tuttavia se è vero che l’essere umano è capace di tante brutture allo stesso tempo è l’unico capace di tanta elevazione.
L’allenamento allora diviene un allenamento alla verticalità. Le religioni forse rappresentano il punto più estremo di questo processo, capaci di ispirare le più alte vette di spiritualità e amorevolezza così come di creare i peggiori inferni alimentando oscurantismi, dittature, violenza e orrori senza fine. In una lezione di qualche mese fa Francesco Tormen ci ricordava come per Sloterdijk in realtà non esistono le religioni ma solo mal interpretati sistemi di antropotecnica.
La “religione” non esiste né esistono le “religioni”, ma soltanto mal compresi sistemi di esercizio spirituale.”
Una vita fondata sull’esercizio
Rifondare la vita sull’esercizio significa prendersi per mano, accogliere, lasciarsi attraversare, essere porosi, curiosi, stupiti, meravigliati, in contatto con sé e l’ambiente. Significa anche un po’ di coraggio perché gli abissi dell’oceano della mente non sono sempre popolati da pesci pagliaccio, coralli scintillanti e splendide stelle marine ma anche da squali minacciosi. Nella metafora di Tenzin Palmo che ci parla di Cristina Zenato, la sub che sussurra proprio a questi ultimi abitanti marini, questi rappresentano le nostre emozioni negative, che possiamo trasformare con i giusti antidoti.
Così come un giusto sforzo in palestra ci tiene in forma e in salute, una corretta dieta tiene a bada la glicemia e un uso consapevole degli smartphone ci permette di non sprecare il nostro tempo, allo stesso modo una pratica di disciplina mentale può rappresentare il punto di svolta verso l’integrazione di diversi aspetti delle nostre vite. Sappiamo dalle neuroscienze che l’acquisizione di nuove abitudini permette di riconfigurare le reti neurali, le risposte dei neurotrasmettitori e addirittura l’espressione del codice genetico. Senz’altro, anche sul piano psicologico, è possibile introdurre nuove risposte di coping e aiutarci a tenerci lontano dalle emozioni velenose, quali rabbia e attaccamento.
“Per mente tranquilla non intendo altro che una mente ben ordinata.” Marco Aurelio
Una mente ben orientata è capace di scelte più pure, di discernere correttamente e di una visione chiara. Mi rendo conto di parafrasare ciò che maestri di tutte le epoche e latitudini ci indicano come la via da seguire e che, in maniera decisamente più laica, Sloterdijk definisce con il termine di antropotecnica. Queste tecniche permettono di trasformare la nostra esperienza sulla terra. Non c’è visione che possa fare a meno di questo elemento. La conoscenza ci può affrancare da alcune difficoltà che la vita biologica porta con sé, ma non dobbiamo credere di essere alieni. Restare “fedeli alla terra”, radicarci ad essa, è la base imprescindibile di ogni pratica, sia essa speculativa, contemplativa o corporea.
Una vita tesa alla verticalità
Meditare, scrivere o anche solo camminare ogni giorno nella natura può produrre cambiamenti significativi nelle nostre vite. Dice Tiziano Fratus che quando cammina gli piace tenere in mano una pigna, un pezzo di corteccia o della terra sfarinata. Ricordarci della terra permette di elevarci mentre manteniamo le radici salde e percorriamo il sentiero con le parole di Tich Nhat Hanh.
“La pace è ogni passo.”
E se inciampiamo poco male. È nella nostra natura cadere e rialzarci. Trapezisti sulla via, volteggiamo tra cavi tesi, tra equilibrio e disequilibrio, sbilanciati verso l’oblìo o il ricordo, riconoscendo la sofferenza in cose felici, la forza della fragilità, “l’alba dentro la sera”.
Accettare la natura processuale dell’esistere richiede esercizio, vigilanza, gentilezza, pazienza e costanza ricordandoci che “Può esserci un diritto all’incompiutezza, ma non esiste un diritto alla banalità”.
Da acrobati cerchiamo l’impossibile. Forse non riusciremo mai a raggiungere quel vertice ma sarebbe insensato non tentare di raggiungerlo.